Ma le regioni non sono pecore nere

Lo Stato ha conservato poteri di interdizione di straordinaria pervasività, come dimostra la giurisprudenza della Corte costituzionale. Salvo che per dettagli pressoché insignificanti, ha sempre ragione lo Stato. D’altra parte, il Costituente avrebbe voluto che la Regione fosse un ente di governo; non creasse una nuova burocrazia (quarta, visto che già c’erano quelle statali, provinciali e comunali); fosse dotata di una autonomia finanziaria che annoverasse tra le entrate proventi significativi di tributi propri; consentisse alle collettività interessate di accertare le responsabilità di chi le avrebbe governate.
E suggeriva, con una osservazione saggia, che il nuovo ordinamento lo si sarebbe dovuto attuare realisticamente: «A ogni modo, ripetersi - sottolineava, conclusivamente, l’on. Bubbio nella seduta del 3 giugno 1947 - è questione di gradualità, e attraverso il collaudo dell’esperienza anche il sistema tributario della Regione troverà la sua definizione». Che cosa avrebbe dovuto fare lo Stato? Tra l’altro, adeguare «i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (articolo 5 della Costituzione); regolare «il passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato, anche delle amministrazioni centrali, che sia reso necessario dal nuovo ordinamento» (VIII disposizione transitoria e finale). È stato mai fatto quel che aveva imposto il Costituente, che aveva ragionato così: se le funzioni esercitate dallo Stato passano alle Regioni, alle stesse debbono essere attribuiti il personale e le risorse ad esse connesse? E i ministeri sono stati ridotti o soppressi? No, sono rinati anche dopo che il corpo referendario li aveva abrogati. Oggi si chiede che la burocrazia statale ponga rimedio ai danni che ha causato: che ha contribuito a provocare resistendo a ogni tentativo di rinnovamento. Le Regioni - oltretutto, si dovrebbero distinguere le relative posizioni - hanno le loro colpe, ma non sono le uniche responsabili. Forse, non sono le principali responsabili. Purtroppo, invece di andare avanti e fare della responsabilità il grande criterio di valutazione delle condotte umane e istituzionali, si è deciso di tornare indietro. Come nel gioco dell’oca, al punto di partenza. Al punto di partenza, però, troveremo antichi pensieri, sui quali vale la pena di riflettere: «Quel che occorre in Italia non è sovrapporre catafalchi di “Regioni”, buone a niente, su gruppi di Province, buone a niente. Occorre invece trasferire dall’amministrazione centrale agli enti locali (Comuni e Province) fonti di reddito e funzioni, che appartengono malamente oggi alla burocrazia centrale, liberare quelle amministrazioni locali dal soffocamento prefettizio, e poi lasciare che i cittadini, attraverso tentativi liberamente fatti ed errori pagati da loro stessi, imparino a poco a poco ad auto-governarsi» (Gaetano Salvemini, 1949).
Chi ha avuto la fortuna o la sfortuna - dipende dai punti di vista - di occuparsi di autonomie e di riforme fa fatica a comprendere quel che sta avvenendo. Soprattutto, gli riesce difficile giustificare il dilettantismo con il quale si commentano le iniziative legislative che, sull’onda dell’emotività, vengono assunte dal governo e convertite in legge dal Parlamento.
Senza lo straccio di un dibattito, di un ragionamento, di una riflessione che si interroghi sulle cause di un vero e proprio dissesto, innanzi tutto morale. Queste ultime, ovviamente, sono assai articolate e complesse, hanno radici profonde e non possono essere discusse in modo sbrigativo. Ma qualcosa si può dire di diverso da quel che esibisce quotidianamente il senso comune, che ha l’imperdonabile difetto di essere acritico.
Dunque, davvero le Regioni sono la dannazione della Repubblica? Pare di sì, a detta dei più. Pure stando a quel che scrivono taluni costituzionalisti, secondo i quali la riforma del Titolo V del 2001 «...ha trasformato le Regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo».
È l’opinione di Michele Ainis. Per quanto mi riguarda, non è affatto così.
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