Province o tutte o nessuna

Per quanto possa apparire banale, è opportuno non dimenticarsi che la fretta è cattiva consigliera.
Il decreto-legge n. 95/2012 attende di essere convertito dalle Camere a giorni e ancora si sta discutendo - non al bar, ma in Parlamento - dell’allungamento dei termini per gli accorpamenti, del ruolo delle Regioni nel processo di semplificazione dei livelli di governo locale ed anche dell’ampliamento delle funzioni.
Ma come - c’è da chiedersi - non c’è chiarezza neppure sulle funzioni, che identificano il ruolo dell’ente di area vasta, una volta modificato?
Il fatto è che la decisione di riformare il sistema, pur indotta da esigenze di carattere economico-finanziario, avrebbe dovuto avere quale presupposto una “visione del mondo”.
Un piccolo-grande progetto, al cui interno si sarebbe dovuta collocare pure una serie ulteriore di valori, che non nomino neppure, ed anche interessi, veicolo di un auspicato successo o di un temuto insuccesso.
Perché, tutti i conti quadrano alla fine e l’economia ha a che fare, molto, con la psicologia. Dunque, a mio sommesso avviso, si sarebbe dovuta percorrere la via maestra della riforma costituzionale e sopprimere le Province.
Tutte, indistintamente. O no, se fosse prevalsa l’opinione contraria.
Il Governo ha fissato due requisiti: per sopravvivere, mutata nei suoi connotati, la nuova Provincia deve estendersi per non meno di 2.500 Kmq. e avere una popolazione di almeno 350 mila abitanti. Si tratta - è ovvio - di elementi che non hanno nulla di razionale perché seguono il metodo di Procuste: l’egualitarismo, figlio di formalità astratte.
Qui non c’è alcuna considerazione della storia, della cultura, della geografia, dell’economia, delle tradizioni. Ci sono numeri che sono del tutto estranei al buon o al cattivo funzionamento, metro di per sé ostentato dai riformatori di ieri e di oggi. Per cui riemerge l’alternativa o tutte o nessuna. Oppure, una grande, organica riforma dell’amministrazione regionale e locale. Ma - si obietta - non c’è tempo. E sia! Allora, chi può è bene rimedi. La Regione Friuli-Venezia Giulia è titolare di ampi poteri.
Sulla carta, vale a dire Statuto speciale di autonomia alla mano, essa dispone di una potestà legislativa di carattere primario, riguardante “l’ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni” (art. 1, n. 1-bis).
Mentre la medesima fonte afferma che “le Province e i Comuni sono enti autonomi ed hanno ordinamenti e funzioni stabilite dalle leggi dello Stato e della Regione” (art. 59, 1° comma). Nella lettura datane dalla Corte costituzionale, ciò significa che la Regione può adottare una legislazione che “non è vincolata all’osservanza delle singole disposizioni del testo unico degli enti locali, ma deve rispettare il principio autonomistico o - meglio ancora - tramite le sue autonome determinazioni deve ‘favorire la piena realizzazione dell’autonomia degli enti locali’” (sentenza n. 238/2007).
È appena il caso di osservare che lo Stato, nell’impugnare la legge regionale del Friuli-Venezia Giulia n. 1/2006, aveva censurato la Regione per non aver riconosciuto in capo alle Province “funzioni proprie”: illegittimamente - cosa ci tocca leggere! - dal momento che “le funzioni delle Province sarebbero funzioni non comprimibili dal legislatore (nazionale o regionale), in quanto da sempre ritenute necessarie per l’esistenza ed il corretto sviluppo delle rispettive comunità territoriali e degli interessi di cui sono esponenziali”.
Il Friuli-Venezia Giulia è, da sempre, binario. Appunto, Friuli e Venezia Giulia.
I due ambiti, naturalmente distinti, si articolano al loro interno in due Province: Udine e Pordenone, Gorizia e Trieste. Chi conosce questi territori sa che lo “status quo” rappresenta l’epilogo di percorsi politici e istituzionali complessi, dei quali si è occupata pure l’Assemblea costituente. Per uscirne, serve un criterio, che a mio modo di vedere risiede nelle ragioni attuali della specialità regionale. Essa consiste nel fatto che il Friuli-Venezia Giulia è una Regione-porta tra l’Ovest e l’Est d’Europa, alla quale “presta” il suo territorio. La Regione può modellarsi al suo interno ripensando la distribuzione delle funzioni e delle risorse, avendo in mente questo obiettivo, che non è soltanto suo, ma dell’intero Paese. Di pari passo, due iniziative: un intervento legislativo proprio, ancorché in contrasto con la normativa statale; una azione di persuasione nei confronti di un Governo e di un Parlamento che non conoscono la logica del dialogo e del confronto.
Aggiungo una piccola osservazione finale. Dal centro può calare soltanto una scure. Nessuno sa nulla. È burocrate e basta. Così, se invece di trastullarsi con un sedicente federalismo fiscale, si fosse data una seria autonomia impositiva agli enti locali, la decisione vera sul da farsi l’avrebbero presa i pordenonesi, gli udinesi, i goriziani e i triestini.
A patto di pagarsi l’incomodo, vale a dire i costi di funzionamento della Provincia, realisticamente determinati.
Messaggero Veneto, 25 luglio 2012
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